Andiamo a dormire su un albero

L’escapismo è una delle affezioni dell’atteggiamento umano che più di ogni altra, nell’ultimo secolo, ha saputo offrire esempi di capacità di riadattamento ed evoluzione, fino ad assumere forme davvero impensabili. Tutti hanno la propria oasi di fuga dell’esistenza, bambini e adolescenti sono tra i più disposti a mostrarci il proprio rifugio, ma ciò non esclude che anche chi si crede oramai avvezzo alle intemperie della vita non si sia costruito il proprio sentiero verso un mondo altro, dove se non proprio tutto, almeno qualcosa sa ancora astrarlo dal reale, per offrirlo quindi ad una condizione di pacatezza e rilassatezza altrimenti impossibile.

Nell’architettare questa fuga spesso capita che qualcuno decida di salire su un albero e magari restarci. Nel secolo ventunesimo poi può avvenire che questi novelli baroni rampanti, allestita la loro dimora tra i rami, decidano di creare un bel sito web e affittare la loro casetta sull’albero a dei novizi dell’escapismo o della dendrofilia. A questo punto non sorprenderà che qualcun altro, spesso si tratta d’un americano, abbia anche pensato di creare una sorta di agenzia online in cui si possono affittare solo stanze costruite su tronchi di pini o di querce. Basta essere dei perditempo, un po’ come lo sono io, e digitare sul vostro motore di ricerca preferito l’indirizzo www.treehousemap.com. Improvvisamente sarete proiettati in un trionfo di legni e foglie, in un paradiso di architetture più o meno ardite che cercano di sfidare, a forza di linee e curve, le leggi della fisica. E nella vostra ricerca, quasi senza accorgervene, vi imbatterete in un piccolo gioiello: il Mirrorcube.

Il Mirrorcube, una scatola biofila

All’inizio del decennio passato in Svezia si avvertiva sempre più forte l’esigenza di fare almeno un tentativo per ricucire lo strappo tra l’umanità e la natura. Il problema fondamentale risiedeva nel fatto che il popolo svedese aveva sempre vissuto, soprattutto nel profondo nord, un rapporto quasi simbiotico con le foreste, ma questa relazione si era venuta man mano affievolendo. Fu allora che Kent Lindvall e Britta Jonsson-Lindvall decisero di realizzare un hotel immerso tra i pini boreali e avvicinare così di nuovo le persone a quei luoghi meravigliosi. Per realizzare il progetto si affidarono ad un gruppo di architetti che sembravano sposare i loro ideali, che in fin dei conti non sono troppo lontani da quella concezione dell’architettura che presiede e costituisce il biophilic design.

Lo studio Tham&Videgård pensò allora di provare qualcosa che somigliasse ad un gesto surrealista e immaginifico, quasi fiabesco: costruire una casa sull’albero. Si pensò ad un vero e proprio cubo, dalle dimensioni precise e compatte, proprio come piace agli Svedesi. Al centro della struttura, a passarla dal tetto al pavimento, troviamo il tronco dell’albero, un solido pino della foresta boreale. Gli interni in fin dei conti sono essenziali, con un impiego massiccio del compensato e con delle finestre su ogni lato, per far sì che si riesca a godere d’un abbraccio della natura a 360 gradi.

È uscendo tuttavia che si possono ammirare due caratteristiche particolarmente interessanti. Innanzitutto il vetro che si è scelto, e che riveste tutta la struttura, è interamente riflettente, in maniera tale che questa piccola stanza fluttuante possa mimetizzarsi, innestarsi e nascondersi tra gli alberi circostanti, i quali a loro volta possono trovarsi riflessi in essa, in un gioco di specchi, in un dialogo, in cui l’opera dell’uomo e quella della natura si scambiano quasi d’identità. Un altro punto affascinante inoltre è il ponte tibetano che collega il suolo all’ingresso della stanza, esso infatti crea uno strano effetto ottico che dà l’impressione costante che questa scala dal sapore mistico stia continuamente levitando.

Tra natura e sogno

Un’oscillazione continua e quasi mai penetrabile. Sembra che tra il Mirrocube, chi l’ha costruito e chi vi si rechi non si possa che creare una relazione quasi inspiegabile. La struttura esiste, è bellissima, è incredibilmente affascinante, ma sembra che non sia tutto così chiaro. Io ad esempio non capisco esattamente perché sia stata costruita, o meglio perché abbia proprio questa forma. C’è la riscoperta della natura, la spinta biofila che di sicuro è essenziale, ma che tuttavia non spiega proprio tutto. Mi sembra che intorno vi aleggi come una curiosa aura di misticismo.

Ci troviamo in una foresta, lontano da tutto e tutti, e questo va a favore della natura escapista della casa sull’albero, simbolo come si è detto di quell’immortale buen retiro che è la fanciullezza. Gli alberi creano un dialogo con la struttura, ma quasi per assimilarla, per non mostrarla, per farla scomparire. Il ponte tibetano vola e con esso si cerca di trascinare in aria l’intera struttura. Misterioso rimane quindi cosa spinga l’ospite a giungere in un luogo che si isola, che vola e che scompare. Il discorso iniziale sulle tendenze escapiste ci spiega bene le motivazioni che portano a questa fuga dalla civiltà per ritrovare, anche in modo più che mai sano, un contatto primitivo con la natura. Quest’ultima inoltre, nel suo abbraccio materno non può che restituirci al suo seno, portandoci a rinnegare il mondo per il breve tempo della nostra sosta nella foresta, liberandoci così dal bric-à-brac dell’esistenza e facendoci in tal modo scomparire.

Questo fluttuare del Mirrocube infine credo rifletta un tratto del tutto umano, ma non meno ancestrale di quello che ci sprona a cercare una nuova relazione con la natura. Si tratta d’un’innata spinta verso l’assurdo, verso il surreale che sentiamo come nostro anche se non ci appartiene. L’immaginifico, seppur riproducibile solo per mezzo tecnico, ci ispira e ci affascina, ci chiama a sé. A proposito sarà bene fare un esempio, in maniera tale da rendere il concetto più chiaro. In Amarcord di Fellini, il protagonista con la famiglia va a prendere al manicomio un vecchio zio pazzo e lo portano con loro in campagna. L’uomo ad un certo punto sale su un albero e comincia ad urlare di volere una donna. La scena è di chiara follia, ma in fin dei conti, nel nostro cuore, ci riconosciamo in quell’uomo che esprime in modo assurdo un bisogno essenziale. E chissà com’è, ci viene una gran voglia di salire sugli alberi.

di Gabriele Presta