Progettare spazi per il benessere ispirati dalla saggezza della Natura: a parlarci del primo Master in Biophilic Design il direttore insieme a due docenti

«La biofilia aggiunge alla sostenibilità ambientale la sostenibilità verso l’essere umano, in termini psicologici. Questo è il futuro in cui crediamo».

Non è un caso che il primo Master universitario in Biophilic Design sia stato creato proprio da un architetto e psicologo, il direttore Leonardo Tizi, che da più di 20 anni si occupa di benessere legato alla progettazione. Dopo aver constatato in prima persona un’attenzione ancora troppo sporadica al concetto di sostenibilità umana nelle progettazioni odierne, ha deciso di istituire un percorso universitario per garantire una formazione biofilica alle vecchie e nuove generazioni di professionisti che, alle varie scale, danno forma ai nostri spazi di vita. Al suo fianco, nell’erogazione delle lezioni all’Università Niccolò Cusano, che ha accolto con grande senso di apertura una proposta innovativa che fa da apripista a livello internazionale, ci sono Silvia Zanichelli e Maria Grazia Mazzali, rispettivamente architetta e psicoanalista che, prima di essere docenti nel Master, hanno fondato insieme uno studio di Interior Design attento alle esigenze tecniche ed emotive della persona, per migliorare il modo di vivere gli spazi dei loro clienti grazie alla Psicologia Ambientale. Con Leonardo, Silvia e Maria Grazia scopriamo cosa c’è dietro la nascita del primo Master in Biophilic Design e quali sono le prospettive future della biofilia nell’ambito della progettazione.

Come è nata l’idea di istituire un Master in Biophilic Design e perché è importante formare professionisti del settore sempre più attenti agli aspetti biofilici della progettazione?

Leonardo Tizi: Il Master nasce dall’esigenza di fornire ai progettisti, che siano architetti, ingegneri, interior designer o urbanisti, le conoscenze scientifiche sulla biofilia nella cornice teorica della psicologia ambientale, per migliorare attraverso la progettazione la qualità di vita delle persone. È fondamentale divulgare l’approccio biofilico perché costituisce una delle strategie principali per far star bene i fruitori di uno spazio costruito. Nell’elaborazione del programma formativo, concepito secondo principi di coerenza tra contenuti, ampiezza, multidisciplinarità e attenzione ai temi della contemporaneità, mi sono soffermato a lungo sul rapporto tra psicologia e architettura. Il termine biofilia, infatti, nasce in ambito psicoanalitico e, poiché l’inconscio è sempre operativo, ho ritenuto consono partire da una visione psicologica dello spazio, recuperando una dimensione etica della progettazione, in contrapposizione ai principi “biofobici” che a volte dominano questo ambito.

Maria Grazia Mazzali: Ho accettato di tenere il corso in “Psicoanalisi e Architettura” perché mi ha offerto l’opportunità di parlare della responsabilità professionale inconscia del progettista, partendo proprio dalla definizione di Freud, in quanto l’inconscio è una dimensione psichica implicata in ogni relazione: uomo/uomo, uomo/ambiente, e le sue azioni influenzano profondamente la realtà. La parola biofilia è una parola greca, usata da E. Fromm nel 1964 per descrivere la posizione di “amore per la vita”, in contrapposizione a quella necrofila o “amore per la morte”. Sul piano inconscio in ogni essere umano vivono queste due pulsioni, la biofilia e la necrofilia. La progettazione biofilica inconscia progetta in armonia con la vita e con l’ambiente e il progettista biofilico ama la vita e l’ambiente. La progettazione, per esempio della propria casa, dovrebbe rappresentare per ciascuno un momento di rigenerazione e salute, mentre durante la mia pratica clinica, ho purtroppo dovuto constatare che tante volte i disagi dei miei pazienti partivano proprio dalla loro abitazione progettata senza i criteri biofilici della salute e troppo spesso creata solo sui gusti dell’architetto. Per questo, ho accettato la proposta di collaborare con uno studio di architettura fondendo le due discipline: ciò è stato possibile grazie all’incontro con Silvia. Insieme riusciamo a dare al cliente la sua casa inconscia. Io, ascoltando molto attentamente i bisogni del cliente, difendo la sua narrazione mentre Silvia mette a disposizione la sua creatività per progettare la “casa su misura”. Tutti noi abbiamo un’esperienza di casa infantile estremamente importante, il bambino da piccolo vive tutto in modo molto più emotivo e grande e, quindi, ha una mappa psicologica infantile particolarmente ricca, che lascia tracce mnestiche indelebili. E saranno queste tracce a farci sentire a casa o estranei in certi luoghi, e questo accade anche nei riguardi della Natura. Per questo, nelle lezioni del Master parliamo anche di intelligenza naturalistica, ovvero di abituare i bambini a stare a contatto con la natura e ad amarla, perché è un programma che noi abbiamo dentro. Il nostro rapporto con l’ambiente si basa su bisogni che devono essere riconosciuti dal progettista, che ha il compito di tenere conto in maniera etica della salute delle persone e dell’ambiente. Un ambiente bello ci può far star bene per anni, un ambiente brutto ci farà star male. È una responsabilità del progettista e noi pensiamo che la bellezza e la salute siano dei diritti imprescindibili, è importante che ci sia un paradigma condiviso, in armonia con la salute umana e con quella dell’ambiente.

Quali vantaggi può apportare l’approccio biofilico nel mondo del design, non solo nel singolo, ma anche nel settore più ampio dell’architettura e dell’ingegneria?

Leonardo Tizi: I vantaggi sono numerosi. Allo stato attuale, le due teorie principali sulla rigeneratività ambientale mettono in risalto sia il recupero delle risorse cognitive sia la riduzione dei livelli di stress. Tuttavia, il rapporto con la natura è scritto nei nostri geni, quindi, è molto probabile che siano attivi anche altri meccanismi che saranno messi in luce nelle ricerche future. I vantaggi si differenziano in base alla tipologia di spazio e alla sua destinazione d’uso. In ambito residenziale, ad esempio, una casa che ci fa sentire rigenerati diventa un dispositivo per il benessere individuale e collettivo. In ambito lavorativo, un approccio biofilico alla progettazione degli uffici migliora la soddisfazione ambientale, che si traduce in una più alta soddisfazione lavorativa: è più probabile che un impiegato stia meglio in generale e lavori meglio. L’ambito sanitario, da cui nasce l’Evidence-Based Design (EBD), è quello in cui i vantaggi sulla salute e sul processo di guarigione sono più documentati: su questo fronte l’Italia è all’avanguardia grazie alle linee guida elaborate dal professor Romano Del Nord. Beneficiano di questi effetti positivi non solo i degenti, ma anche tutto il personale sanitario e i visitatori e accompagnatori. In ambito scolastico, i vantaggi possono riguardare i livelli di apprendimento dei discenti, il benessere degli insegnanti; inoltre, sviluppare in età evolutiva l’intelligenza naturalistica creerà adulti con una maggiore connessione alla Natura e più sensibili ai temi e ai comportamenti pro-ambientali. I vantaggi si riscontrano anche in ambito museale: già nel 1916 era stata rilevata la cosiddetta “fatica da museo”, infatti, è esperienza comune che dopo un po’ stare in un museo è faticoso, anche se si è molto interessati al tema. Quindi, spazi biofili e rigenerativi all’interno dei musei aiutano a contrastare questa stanchezza, migliorando l’esperienza di visita in termini di apprendimento e divertimento. A livello urbano, avere delle aree verdi è fondamentale: attenzione però, la Natura è madre quando i giardini cittadini sono ben curati e percepiti come sicuri, è matrigna quando l’abbandono e il degrado li trasforma in luoghi potenzialmente pericolosi. Per questo, nel Master ho voluto una lezione “sul bello e sul brutto”, coinvolgendo una docente dell’Università della Basilicata, Silvana Kühtz, che ha scritto “Il manifesto del demolitore”: la realtà geografica italiana (e non solo), infatti, è disseminata di scheletri, edifici abbandonati, che creano bruttezza, che è in antitesi alla bellezza che possiamo trovare in natura. Nell’ottica della multidisciplinarietà, nel Master, abbiamo considerato una serie di nuovi insegnamenti che hanno dei punti di contatto con l’approccio biofilico, come la progettazione inclusiva, l’ecologia dei suoni, il modello dei green building, o la frontiera più innovativa della net-positive architecture, orientata alla costruzione di edifici sostenibili in grado di produrre più energia di quanta ne consumino. Non in ultimo, l’approccio biofilico al colore, elemento fondamentale in tutti gli spazi, anche perché costituisce il primo livello di risposta a un ambiente in termini percettivi. Silvia e Maria Grazia si sono occupate anche di questo aspetto.

Silvia Zanichelli: Infatti, abbiamo tenuto lezioni sul colore e sugli effetti psicofisiologici che provoca. Quando pensiamo a palette biofiliche, cadiamo spesso nello stereotipo di prendere in considerazione soltanto il verde: è comprensibile perché “verde” è l’unico vocabolo che significa sia la tinta sia la vegetazione contemporaneamente. Ma la natura ci offre una gamma vastissima: i marroni e i rossi delle terre, i beige delle sabbie, gli azzurri del mare, i viola dei tramonti, i rosa e i gialli delle albe, c’è tutta la varietà dei colori che conosciamo. Ma più della tinta, è la qualità del colore a renderlo più o meno biofilico: una tavola di legno, una parete di calce o una pianella di cotto contengono mille sfumature e una profondità che non possiamo replicare con tinte monocromatiche uniformi e piatte. Il monocromatismo, essendo così lontano dalla nostra abitudine visiva, affatica l’occhio. Ad esempio, la Serie di dipinti della Cattedrale di Rouen realizzati da Monet, in stagioni diverse e a orari diversi, ci mostra come lo stesso soggetto cambi colore in base alla luce, alle condizioni meteorologiche, all’ora e al giorno dell’anno. Il nostro cervello ancestrale è abituato a questa ricchezza e varietà, per questo emotivamente il colore piatto è un colore che non “ci parla”. Il colore ha una valenza non solo biologica, ma anche culturale e personale molto forti. Questa sovrapposizione di livelli è uno dei motivi per cui non esiste un sapere condiviso universalmente e le risposte psicofisiologiche sono a volte divergenti. Una casa coloratissima piena di tinte sature e luminosissime, a meno che qualcuno non abbia una personalità cromatica particolarmente spiccata, nel tempo può causare più stress che benessere. Il soggetto che guarda è quanto mai importante, in virtù del fatto che “il colore non esiste” ed è esclusivamente una percezione della nostra mente. Questo lo rende un argomento complesso quanto affascinante.

Maria Grazia Mazzali: Oggi assistiamo ad una diffusione del fenomeno cromofobia: spesso le case più blasonate e la comunicazione dei brand di lusso abbracciano uno stile cromaticamente sobrio e neutro, quasi come se il colore riguardasse un retaggio poco colto. Sui social, stanno spopolando camerette per bambini tutte beige, cosa che può essere problematica perché le tinte accese favoriscono non solo lo sviluppo cognitivo, ma anche il controllo emotivo. Nel cinema, le case futuristiche sono tutte bianche, con molto vetro e luci fredde, come se evolverci volesse dire affrancarci dalla Natura. Eppure, il colore ha una valenza estremamente seduttiva, ci è servito nella nostra evoluzione e sopravvivenza per riconoscere un frutto maturo o un’acqua limpida, così come per veicolare i messaggi riproduttivi con un piumaggio sgargiante o un volto roseo (che se non abbiamo, ricreiamo con il make-up).

In che modo la psicologia ambientale può dare il suo contributo strategico allo sviluppo futuro del design?

Leonardo Tizi: Il contributo principale della psicologia ambientale (o architettonica) alla progettazione inizia dalle sue teorie, che sono evidence-based in analogia alle evidenze scientifiche in ambito medico. E questo non costituisce un limite alla creatività del progettista: la psicologia ambientale individua dei punti ai quali prestare attenzione, l’architetto esprimerà attraverso la sua visione la soluzione migliore per quel tema specifico. Nel Master, abbiamo scelto la psicologia ambientale come cornice teorica di riferimento sapendo che di biofilia si occupano anche altre discipline, perché tra tutte è quella che offre maggiori possibilità applicative rispetto agli spazi in cui viviamo, studiando le relazioni dinamiche e circolari tra persona e ambiente.

Maria Grazia Mazzali: Bisognerebbe riportare la priorità alla salute, in modo trasversale, nella costruzione etica dell’ambiente. Il narcisismo del progettista è stato fin troppo dominante: le archistar hanno fatto del brutto un’icona a costo di distinguersi. Oggi, per fortuna, questo è un paradigma che può essere messo in discussione su basi scientifiche.

Ai non addetti ai lavori, come possiamo spiegare il biophilic design e la sua importanza crescente?

Leonardo Tizi: Il Biophilic Design è l’approccio alla progettazione del futuro. Le neuroscienze stanno prendendo sempre più piede nel mondo della psicologia e della cultura in generale. Oggi abbiamo la possibilità di valutare l’impatto delle scelte progettuali sui livelli di attivazione fisiologica, sulla risposta emotiva, cognitiva e comportamentale. Inoltre, le Agende internazionali focalizzate sui temi della sostenibilità ambientale iniziano a considerare criteri biofili: è una necessità rispetto all’utilizzo delle risorse primarie, al fatto che quando si progetta un edificio bisogna pensare al suo ciclo di vita, con attenzione a quando sarà smantellato, pensando a un minor impatto possibile sull’ambiente. La biofilia aggiunge alla sostenibilità ambientale la sostenibilità verso l’essere umano, in termini psicologici. Questo è il futuro in cui crediamo.

Giulia Sartori